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Prodotto nel lontano 1995, l’anime (a sua volta nato dall’omonimo manga) Ghost in the Shell ha un’eredità importante. In un 2029 — oggi molto più vicino del ’95 — dove i computer hanno pervaso vite e corpi, gran parte della popolazione ha impianti cibernetici ma Motoko Kusanagi, aka il Maggiore, in seguito ad un incidente dai tratti oscuri, è molto di più (o, a seconda dei punti di vista, di meno). Tutto ciò che rimane di lei è il suo cervello, installato all’interno di uno shell, un corpo robotico quasi indistruttibile che le da abilità da supereroe ma che la priva delle sensazioni umane.

Si diceva dell’eredità di Ghost in the Shell: uno tra tutti i Wachowski e la loro saga di Matrix. La coppia di registi fece visionare al produttore Joel Silver l’anime affermando “Noi lo vogliamo fare reale”. Ispirazione a parte, molta dell’iconografia del franchise tra cui la cascata di simboli verdi su sfondo nero arriva proprio da Ghost in the Shell. Oltre Matrix, l’anime ha contribuito a sdoganare il cyberpunk dalle pagine dei fumetti alla celluloide, tanto da ritrovare citazioni e paralleli in film più recenti come Avatar, il Mondo dei Replicanti o Transcendence, tanto per citarne alcuni.

Ok, ora immagino abbiate (se non ce l’avevate già) idea del “peso” che si porta appresso la trasposizione cinematografica interpretata da Rossella Figlia-di-Joan.

Ghost in the Shell (2017)

Il film riprende, per sommi capi, la trama del manga/anime. Il Maggiore (Scarlett Johansson) viene salvata da morte certa per trasformarla nel capostipite di una nuova frontiera dell’umanità: un cervello umano impiantato in un corpo da robot. Domande morali di rito: di chi è il Maggiore? Ha una propria libertà? O il proprio corpo è in comodato d’uso, casetta semovente per il proprio cervello che l’azienda produttrice può ispezionare e modificare (e trasformare in un’arma) a piacimento? E’ qui che s’innesta la dualità tra il ghost (lo spirito) e lo shell (il corpo). Crucci morali a parte, un anno dopo la sua creazione, il Maggiore è ingaggiato in una squadra anti-terrorista del governo e insieme all’inseparabile Batou ed al resto della sezione della Sicurezza Pubblica 9 sono chiamati ad agire. Seguendo le tracce del complotto terrorista, il Maggiore scoprirà le inquietanti verità dietro al proprio passato.

Dopo la descrizione generale di rito arriviamo alla domanda cruciale: com’è questa trasposizione su celluloide? Parafrasando quanto scritto sopra, tanto Shell e poco Ghost.

Sorvolando agevolmente sulle polemiche sul whitewashing di tutto il cast — qui la Johansson si salva in corner grazie ad un dettaglio messo apposta dalla narrazione, ma anche no — si può dire che registra e sceneggiatori hanno fatto del loro meglio per rendere più lineare possibile una trama che faceva della complessità un suo carattere distintivo. Molti dei temi importanti dell’anime, accennati sopra, vengono snocciolati in un attimo, per paura che il pubblico possa addormentarsi seguendo un ragionamento senza una scazzottata a suon di impianti cibernetici che ravvivi l’atmosfera. Questo toglie molta dell’anima che caratterizzava, pardon, l’anime di 22 anni prima. Al contrario ci si ritrova con un Maggiore inespressivo (come da copione) i cui crucci interiori svaniscono nella desolata terra del non-detto, sulla quale vengono accatastate vuote macchinazioni corporative e tempeste di cazzotto-proiettili all’indirizzo di qualche migliaio di anonimi cattivoni.

Dalla sua, il film ha effetti speciali e fotografia da urlo, nel presentare un futuro distopico fatto di realtà (poca) aumentata (tanta), automobili da videogame e combattimenti al limite della fisica. Peccato che tutto questo, per quanto fantastico, non sopperisca alla mancanza di una sostanza degna dell’illustre predecessore.

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